Mossad, le spie che vengono da Israele

Le tracce della presenza degli agenti accuratamente ripulite. Una missione perfetta, o quasi, i contrattempi ci sono, e anche la furia delle autorità argentine per quell’intromissione di stranieri nel giardino di casa. Spesso il Mossad va a bersaglio. Talvolta invece compie leggerezze incredibili e valutazioni errate e uccide il bersaglio sbagliato, gente innocente. Il fiasco allora è fragoroso e il confine fra guerra e pace si sposta terribilmente verso la prima: successe così nel 1987 quando un commando del Mossad provò a uccidere con il veleno Khaled Meshaal, leader di Hamas che stava in Giordania, tollerato (ma non amato) da re Hussein.  

La vicenda di Eichmann e quella di Meshaal sono solo due delle venti storie di operazioni segrete, che Michael Bar-Zohar e Nissim Mishal hanno raccolto in un volume (Mossad: le più grandi missioni del servizio segreto israeliano). Storie che coincidono con l’esistenza stessa di Israele, che sono intrecciate alla battaglia che dalla sua fondazione nel 1948 lo Stato ebraico conduce in nome della propria sicurezza. Nel libro c’è tutto quello che uno potrebbe immaginarsi in una spy story, con un dettaglio non trascurabile: non c’è finzione. Ci sono travestimenti, bugie, trucchi, ordini politici, armi, sparatorie, veleno che uccide, autobombe. Tecnologia e fattore umano, la cosiddetta «Humint» l’intelligence che si fa reclutando, barando, infrangendo le regole etiche basilari in nome di un disegno più alto di uno scopo vitale.  

E poi le debolezze umane, quelle che rendono in fondo possibile per una spia ben addestrata carpire informazioni e notizie riservate ovunque e da chiunque. Ci sono personaggi diventati ricchi facendo il doppiogioco o semplicemente vendendo informazioni agli israeliani– è il caso del genero del leader egiziano Nasser, nome in codice «l’Angelo»; e ci sono amanti che loro malgrado decretano la morte dell’amato. Come Imad Mughniyeh, l’imprendibile e spietato leader operativo di Hezbollah. Nessuno sa nemmeno che aspetto abbia quest’uomo rimesso a nuovo da plastiche facciali, che si trova a suo agio solo a Teheran e Damasco. Ma qui nel 2008 morirà, scovato poiché il Mossad sapeva che ogni volta si recava nella capitale siriana vedeva la sua amante Nihad Haidar. Una bomba piazzata a fianco al suo Pajero terminò l’esistenza di Mughniyeh.  

Gli autori – e qui sta il merito maggiore del libro – non concedono spazio alla retorica né all’esaltazione del lavoro del Mossad. La loro è una ricostruzione che si basa su fonti di prima mano, interviste e documenti. Le storie sono asciutte nel linguaggio, ma incalzanti e ricche di suspense, cronache minuziose e dettagliate di come sono nate, pianificate e condotte alcune delle operazioni clandestine la cui fortuna (o insuccesso) ha contribuito a plasmare il mondo mediorientale attuale.

Fonte La Stampa