Il fallimento dell’intelligence sudcoreana e il ruolo dell’America in Corea del nord

“Con l’aumento delle tensioni e il test nucleare di febbraio”, dice al Foglio Evans Revere, direttore dell’Albright Stonebridge Group, “è chiaro che hanno la necessità di essere più vigili”. Per questo, secondo alcune fonti, attualmente sarebbero in stato di arresto a Seul almeno quindici spie nordcoreane. Ma è niente in confronto a tutto quello che i nordcoreani hanno potuto fargli sotto il naso per anni. I rifugiati, per esempio. C’è chi fa finta di scappare da Pyongyang ed è in realtà un alto ufficiale dai servizi nordcoreani (come Lee Kyung-hae, 46 anni, arrestata in Corea del sud nel giugno 2012), c’è chi scappa davvero, e una volta al sicuro, riceve minacce contro i propri familiari rimasti in nord Corea: “E’ una pratica molto diffusa”, dice al Foglio Scott Snyder del Council on Foreign Relations, “e su questo punto l’intelligence sudcoreana ha mostrato molte fragilità”. C’è poi il caso del ristorante di cucina nordcoreana a Seul: quando nel 2011 gli esattori delle tasse fecero un blitz per controllarne la contabilità, al posto degli scontrini fiscali trovarono le trascrizioni delle conversazioni di uomini d’affari sudcoreani che si sedevano ai tavoli, diligentemente redatte dalle ragazze che accompagnano i pasti con vari tipi di intrattenimento. La guerra di spie tra nord e sud è materiale per fiction (molto seguita la serie tv “Iris”, che parla di una coppia di agenti segreti, uno dei quali sospettato di fare il doppio gioco per il nord).

Se da una parte, fino a poco tempo fa, l’atteggiamento dei sudcoreani nei confronti delle minacce del nord era piuttosto derisorio, a oggi la chiusura della zona industriale di Kaesong, nata del 2004 a nord del 38esimo parallelo e che ospita oggi oltre 120 aziende sudcoreane – è una falsa notizia. Il polo industriale, infatti, non è stato chiuso, ha continuato a lavorare (e a produrre profitto). Ciò che ha fatto la Corea del nord è stato bloccare i sudcoreani che ogni mattino valicano la frontiera per andare a lavorare a Kaesong. A coloro che erano già all’interno del polo industriale non è stato impedito di tornare in patria. Diverso da quanto fece Kim Jong-il nel 2008, per esempio, quando espulse tutti i sudcoreani presenti a Kaesong. Inoltre, la decisione di Kim Jong-un è stata una reazione ai media che, secondo lui, avrebbero “ridicolizzato” il nord parlando di un doppio gioco di Pyongyang, sul piede di guerra ma attento a mantenere aperta la zona industriale condivisa con il sud.

Washington ha dato molto rilievo mediatico all’invio di bombardieri in Corea del sud. Una campagna di stampa che ha a che fare – anche – con la presenza delle basi militari americane in Corea del sud e Giappone. Sono in molti, infatti, nei Palazzi di Tokyo a mettere in dubbio l’opportunità della base americana di Osaka, senza contare le proposte di modifica della Costituzione giapponese degli ultimi mesi propugnate anche dal nuovo premier Shinzo Abe: secondo la Carta redatta nel Dopoguerra, il Giappone non potrebbe combattere una guerra se non direttamente coinvolto. Se Tokyo modificasse la Costituzione e fosse in grado, anche militarmente, di mantenere da solo lo status quo in Asia, allora la presenza militare americana sarebbe meno convincente. Il gioco di tensione di Pyongyang, in un certo senso, è vantaggioso anche per Washington che così giustifica non solo l’invio di un intero arsenale nei mari sudcoreani ma incrementa così anche i legami con la Cina – proprio ieri i ministri della Difesa di Stati Uniti e Cina, Chuck Hagel e Chang Wanquan, hanno discusso al telefono della crisi coreana. Subito dopo la telefonata, l’America hanno inviato una batteria di difesa missilistica nell’isola sudcoreana di Guam.

Aidan Foster-Carter, analista della Leeds University, notava il 29 marzo scorso sul Guardian come Bill Clinton vent’anni fa aveva preso molto seriamente l’ipotesi di bombardare il sito nucleare nordcoreano di Yongbyon, quello che l’altroieri Kim Jong-un ha annunciato di voler riattivare – era stato infatti fermato nel  2007 in cambio di 400 milioni di dollari in petrolio e aiuti alimentari. Quello che fece Clinton fu quantificare l’ipotesi di una guerra: un milione di morti, di cui centomila americani. Un prezzo troppo alto per una guerra che avrebbe, secondo l’ex presidente americano, “distrutto la Corea del nord”. I vertici di Pyongyang lo sanno bene, come sanno che un regime, privo della retorica militaristica che compatta il popolo, mostra le debolezze della gente comune ed espone al rischio di un colpo di stato.

Fonte Il Foglio