Emanuela Orlandi, i servizi segreti e i preti pedofili


La trattativa per il rilascio della figlia del «postino» papale non era incerta o in corso: era conclusa. Siamo a fine settembre 1983. Lo Stato, nella persona di un agente del Sisde, bussò a casa Orlandi: «Emanuela tornerà tra 10-15 giorni,mami raccomando, portatela fuori, lontana dai giornalisti, èmolto provata…». Papà Ercole, mamma Maria, il fratello Pietro e le altre tre sorelle si abbracciarono. Erano passati tre mesi. Novanta giorni da incubo: ogni ora un messaggio, una rivendicazione, un depistaggio, un pugno alla bocca dello stomaco quando al telefono si faceva vivo l’«Amerikano»…. È quella promessa caduta nel vuoto, quell’annuncio fallace che gettò nella costernazione gli Orlandi la lente da usare, oggi, per mettere a fuoco gli ultimi inquietanti sviluppi sulla pista che lega il sequestro di Emanuela, ma anche della coetanea Mirella Gregori, ai preti pedofili di Boston. Perché il giovane 007 Giulio Gangi, che in seguito si rimangiò le parole dette, comunicò l’imminente lieto fine? Già, da chi l’aveva saputo? La «ragazza con la fascetta» a settembre — dunque — era indubitabilmente viva, il che autorizza a spazzar via ogni ricostruzione che la vuole morta prima?

Il tutto, portato oggi come novità, è invece pericolosamente rievocativo di un articolo firmato sempre da Peronaci sul Corriere e pubblicato il 4 luglio 2011. Per quanto riguarda invece quello che ha detto Gangi, ci sono da ricordare le sue stesse parole, dette tante volte anche a noi (LEGGI QUI). Ovvero: il poliziotto era convinto che la scomparsa di Emanuela fosse da ricollegare a una presunta tratta di donne bianche su cui lui stava indagando: ragazze e ragazzine che sparivano senza lasciare tracce a Roma e che, secondo l’ipotesi investigativa su cui Gangi lavorava, venivano rapite e deportate forse in paesi arabi. Un’ipotesi abbandonata e senza alcun riscontro nei mesi successivi. Proprio in quell’ottica Gangi disse che era sicuro che avrebbe riportato a casa Emanuela, anche per farsi bello con una parente degli Orlandi a cui faceva il filo. Purtroppo, non si rivelò la pista giusta. Però su un punto ha ragione la ricostruzione del Corriere:

Quei messaggi rappresentarono un’operazione di intelligence (un po’ goffa e di dubbio gusto) per tentare di stanare i sequestratori, utilizzando i mass media. E dove venivano fatti trovare? Due nelle chiese di San Bellarmino e di San Silvestro, un altro sotto l’immagine di una Madonna vicino piazza di Spagna. Scelta casuale? Il senso, a una lettura attenta, non può che essere: sappiamo chi siete, vi bracchiamo. L’«Amerikano», d’altronde, nelle stesse ore veniva descritto dal prefetto Vincenzo Parisi, vicecapo del Sisde, come persona legata al «mondo ecclesiastico ». Ma non basta: «Phoenix» (città dove era già scoppiato un caso di pedofilia nel clero, altra coincidenza?) l’8 ottobre 1983 testualmente dichiara: «È cosa nostra porre termine alla situazione Orlandi… Nell’eventualità di una mancata obbedienza estirperemo alla radice questa pseudo organizzazione causa di spiacevoli inconvenienti». Tradotto: rapitori di Boston, badate, vi abbiamo in pugno

Solo che, appunto, la storia finisce qui: la pista non portò a nulla di concreto, anche perché sia il Turkesh che la Phoenix che “l’Amerikano” (intrecciati come volete, non è quello il punto), nella ridda di messaggi che inviarono o fecero arrivare in quegli anni, non diedero mai la prova dell’esistenza in vita di Emanuela Orlandi. E se non avevano la Orlandi, significa che quello di cui parlavano non era un rapimento. Non ci sono prove che l’abbiano nemmeno conosciuta. E, come abbiamo già scritto, i corollari seguano pure.

Fonte Giornalettismo