Come se non bastasse, il Presidente siriano continua a godere dell’indiscusso sostegno di esercito e potenti alleati stranieri (primi tra tutti Iran e Russia). Il che lo rende certamente più sicuro – e intimidatorio – di quanto non fossero in passato Mubarak, Ben Ali o Gheddafi. Strenuamente difesa da un esercito di mezzo milione di soldati e da servizi di sicurezza infallibili, Damasco, nonostante tutto, rimane forte. E Riad lo sa bene.
Pur consapevole dei rischi insiti in una sua dichiarata e (più o meno) diretta partecipazione alla ribellione siriana, l’Arabia Saudita sembra, tuttavia, non voler rinunciare all’opportunità di veder scomparire uno dei suoi peggiori incubi. La caduta di Al Assad si risolverebbe invero in un risultato mediato ma sufficiente a riequilibrare l’influenza di Riad sulla penisola arabica. Basterebbe, infatti, a frenare l’ascesa di quello che è il suo vero nemico, l’Iran.
E a questo scopo, ogni mezzo è lecito. I sauditi hanno già letteralmente inondato di capitali l’opposizione armata siriana e non è affatto escluso che, con l’aiuto del Mit – i servizi di intelligence turchi -, abbiano materialmente fornito e consegnato armi ai ribelli. Ad ogni modo, è facendo ricorso al concetto di jihad, che l’ultra conservatore principato saudita riesce a mobilitare la più accanita e tenace resistenza al regime alawita.
L’avversione contro questa minoranza sciita che tiene in pugno un paese per il 75% sunnita pare invero uno strumento molto persuasivo. E’ in nome dell’islam che, dallo scorso febbraio, Riad ha irrigidito la sua posizione contro il governo siriano, rappresentato come una dittatura atea, o meglio, retta da una minoranza eretica che opprime i musulmani sunniti. Dietro la missione di affermare un modello statale realmente islamico, e non meramente arabo, l’Arabia Saudita si fa pertanto promotrice (e finanziatrice) di una battaglia ideologico-religiosa diretta non solo contro la Siria, ma anche, e soprattutto, contro l’Iran e i suoi alleati sciiti.
Del resto, il contesto socio-politico siriano prospetta ampi margini di manovra all’infiltrazione della jihad e la presenza, in prossimità dell’immediato confine iracheno, di un’importante cellula jihadista rende le operazioni ancora più facili, specialmente se lautamente sovvenzionate dai sauditi. Sfruttando una linea di transito già ben collaudata dal 2004 al 2007, allora in direzione Iraq, la propaganda salafita di matrice saudita è stata già capace di iniettare in Siria, via Libano o Turchia, un flusso continuo (sebbene ancora relativamente contenuto – si parla al momento di un numero tra le 700 e le 1400 unità -) di combattenti jihadisti diversi ma uniti al comune grido di battaglia contro Al Assad. Alcuni di questi vengono affiliati all’Esercito siriano libero, altri costituiscono loro brigate autonome.
Ma se fino ad ora si è rivelato piuttosto agevole per Riad schierare una larga fascia di combattenti – infervorati altresì dalla notizia dell’uccisione di circa 10.000 civili sunniti per mano di Al Assad -, altrettanto potrebbe non accadere per il controllo degli stessi una volta scesi in campo. La jihad è infatti una forza multiforme, imprevedibile e difficile da contenere, a maggior ragione per un paese che, come l’Arabia Saudita, non può neppure fare affidamento su un confine comune con il territorio in cui si svolgono le operazioni. Priva di efficienti meccanismi istituzionali che le garantiscano l’effettiva supervisione e gestione dell’iniziativa jihadista, Riad rischia di trovarsi isolata più di quanto già non sia. D’altronde, i sauditi non dispongono di servizi segreti paragonabili a quelli iraniani.
La General Intelligence Presidency è una struttura più modesta e certamente meno esperta del complesso apparato di sicurezza a disposizione di Teheran. Con un’influenza politica limitata nella regione e un blocco rivale compatto e logisticamente facilitato (non a caso, l’Iran può contare dell’appoggio diretto del libanese Hezbollah), la manovra saudita in Siria potrebbe ritorcersi contro proprio gli interessi di Riad. A repentaglio è innanzitutto quel precario e difficile equilibrio da sempre perseguito dall’Arabia Saudita tra la propria politica interna, fedele al ruolo di baluardo islamico nella regione, ed estera, caratterizzata invece da un longevo allineamento sulle posizioni degli Stati Uniti e dell’Occidente.
Fonte Loccidentale