Indagini su Facebook grazie agli amici

La sentenza del giudice è significativa perché è l’ultima di una serie di casi (Twitter docet) che definiscono come e quando la polizia può agire sui social media. Nel caso del Bronx, il giudice ha affermato che l’imputato non poteva negare agli amici di utilizzare le informazioni da lui stesso postate sulle loro bacheche o condivise sulla propria: “La privacy di Colon finisce quando dissemina post ai suoi amici, che sono liberi di usare le informazioni recepite come meglio credono, anche direttamente con il Governo” – si legge nella sentenza.

A sostegno di questa posizione il giudice Pauley ha citato un caso nel quale organi governativi hanno ascoltato diverse telefonate senza mandato, a condizione che una delle due persone della conversazione avesse dato loro il permesso di farlo. Ironia della sorte, l’attuale organizzazione temporale dei profili di Facebook rende ancora più semplice scavare nella marea dei contenuti postati e anche Colon era passato alla Timeline introdotta qualche mese fa.

E’ oramai uso comune per istituti pubblici e privati, scandagliare i social network per raggiungere prima e meglio un determinato pubblico. Sia nel caso di indagini di polizia che per scopi commerciali, Facebook è in cima alla lista dei migliori posti dove trovare un grande potenziale di acquirenti, divisi per età e settore. La logica che è alla base di entrambi i tipi di ricerche è unica: i dati privati postati sui social network diventano pubblici appena vengono pubblicati; una mole di informazioni che fa gola a molti.

Per questo più che la privacy imposta (o meno) da Facebook, la questione ora riguarda la capacità delle persone di distinguere cosa postare e cosa meno sulle bacheche personali e su quelle degli amici. In quanto social network Facebook ha l’evidente logica di lasciare che gli utenti condividano quello che vogliono con la propria rete e inevitabilmente i lati oscuri o poco raccomandabili di un individuo vengono sempre fuori, anche sulla rete.

Fonte La Stampa